Conferenza “Conoscere Primo Levi”

9 Febbraio 2023 Off Di Maurizio Tonelli

Nell’ambito delle celebrazioni legate al Giorno della Memoria, il Lions Club Livorno Porto Mediceo ha organizzato, con il Patrocinio del Comune di Livorno, la conferenza dal titolo “Conoscere Primo Levi” tenuta da Fabio Levi, Professore Universitario di Storia Contemporanea all’Università di Torino, scrittore, partigiano e superstite dell’Olocausto Italiano, nipote di Primo Levi e Direttore del “Centro Internazionale di Studi Primo Levi“.

L’incontro si è tenuto il 9 febbraio 2023 presso la sala conferenze della biblioteca Bottini dell’Olio di Livorno.



Ecco il testo del discorso preparato dal professor Fabio Levi.

Primo Levi è una presenza forte, ricca e dialogante nel panorama della cultura contemporanea. Questo vale in primo luogo per l’Italia, dove la sua figura è oramai riconosciuta come un punto di riferimento ineludibile, ma anche in molte parti del mondo: sinora sono infatti quasi cinquanta le lingue in cui i suoi scritti sono stati tradotti ed è del 2015 la pubblicazione, da parte dell’editore Norton di New York, dell’opera completa in inglese: allo stesso tempo un importante riconoscimento e un impulso ulteriore alla sua diffusione oltre i confini del paese.
In Italia e all’estero il nome di Primo Levi è legato in primo luogo alla sua testimonianza sulla Shoah e alla sua straordinaria capacità di sollecitare nei lettori uno sforzo di riflessione e di “meditazione” su quell’evento, assunto come luogo della storia decisivo per approfondire la conoscenza dell’uomo. Lo sappiamo: per Levi scrittore e testimone il riferimento alla propria esperienza è solo il mezzo obbligato per indagare il mondo capovolto di Auschwitz e i suoi atroci meccanismi; il “pacato”, e per questo tanto più convincente, procedere del suo discorso non cancella i moti profondi dell’invettiva e dello scandalo e anzi ne trae vigore narrativo e spessore di pensiero; il talento letterario, arricchito di preziosi richiami agli autori più amati, riesce a dar voce persino ai silenzi più cupi. Viene a stabilirsi in tal modo un solido patto con il lettore, incoraggiato ad avventurarsi con fiducia su strade anche molto impervie, come quelle tracciate, attraverso e oltre “Se questo è un uomo”, nelle pagine de “I sommersi e i salvati”.
Noi tutti ci sentiamo stretti da quel patto. Ma – sappiamo anche questo – non è stato sempre così. L’incontro di Primo Levi con il suo pubblico ha dovuto fare fronte, e non solo all’inizio, a non pochi ostacoli. In Italia dove l’edizione Einaudi di “Se questo è un uomo” è arrivata con 11 anni di ritardo, e altrove. In situazioni anche molto lontane fra loro non sono mancate quelle che potremmo definire “partenze difficili”: cioè prime edizioni di “Se questo è un uomo” o de “La tregua” – raramente di altre opere – stampate magari in poche copie e seguite solo dopo molto tempo da nuove uscite destinate ad un pubblico più vasto. La vicenda di quegli avvii contrastati mostra con tanta maggiore evidenza la forza frenante dei fattori intervenuti a rallentare la diffusione e la conoscenza degli scritti di Primo Levi, ma fa risaltare nello stesso tempo l’importanza di quei primi tentativi, sostenuti dall’incoercibile determinazione dell’autore – non priva di modesta ritrosia – e dall’impegno non meno convinto profuso da pochi altri, dotati di coraggiosa lungimiranza.
Per non dire delle difficoltà incontrate in Germania su cui varrebbe la pena avviare al più presto uno studio specifico, nella generalità degli stati dell’Est europeo, in Giappone, in Israele o anche in un paese vicino come la Francia, dove le prime pessime traduzioni non hanno certo favorito la lettura. Erano varie e consistenti le ragioni che bloccavano i discorsi sulla Shoah o non attribuivano grande risonanza a un testimone sconosciuto e per di più italiano. Rilievo non minore ha avuto l’esitazione, manifestatasi a lungo da noi e altrove, a riconoscere le qualità letterarie dell’opera di Primo Levi: frutto certo di diffidenze e gelosie maturate nell’ambiente letterario, essa è stata uno dei modi che sono valsi a ridimensionare la valenza universale del racconto di Auschwitz offerto dallo scrittore torinese.
A fronte di quegli ostacoli poteva qualche cosa solo l’impegno determinato, irrevocabile, in prima persona, del testimone: quello che Levi definiva, oltre alla chimica e alla scrittura, il suo terzo mestiere. E insieme una vocazione educativa chiaramente caratterizzata: dalla pronta disponibilità ad accettare gli inviti a parlare soprattutto nelle scuole, dalla precisione e dalla chiarezza del raccontare, dalla riflessiva pacatezza con cui contrastare nei più giovani gli schematismi, le contrapposizioni manichee e le scorciatoie dettate dal sovraccarico emotivo; e infine dalla qualità sua più convincente: la naturale consonanza fra modo di scrivere, di parlare e di essere nella relazione con gli altri.
Malgrado quella fatica spossante, pure rivelatasi nell’immediato un dono prezioso per i ragazzi di allora che oggi ricordano con emozione quegli incontri, un più ampio riconoscimento ha tuttavia tardato a venire. La vera svolta si è prodotta soltanto con gli anni 80, per più di una ragione. In primo luogo, la pubblicazione nel 1984 de Il sistema periodico negli Stati Uniti, seguita da un improvviso e insperato successo, ha offerto a Primo Levi e alla sua opera una legittimità diversa. La piena consacrazione come scrittore ha contribuito non poco a dare maggiore autorevolezza alla sua opera di testimonianza, aprendo anche all’ascolto delle originali riflessioni sullo sterminio destinate a venire poco dopo con I sommersi e i salvati.
Di quello stesso periodo sono state, prima, le polemiche scoppiate intorno all’aperto dissenso manifestato dallo scrittore torinese contro l’invasione del Libano decisa dal governo israeliano di allora; poi le ripetute prese di posizione contro il negazionismo. Quelle critiche e quelle denunce hanno fatto risaltare una dimensione sino ad allora meno evidente della personalità di Levi: il suo essere un uomo del presente, attivo anche sulla scena politica e nel dibattito interno al mondo ebraico internazionale. Un peso non indifferente ha poi avuto nel far conoscere la figura e l’opera la profonda impressione suscitata dalla sua scomparsa improvvisa e prematura nel 1987. Essa ha contribuito a suscitare grande interesse in particolare sugli aspetti più tragici della sua esperienza e del suo impegno di testimone, al prezzo troppo spesso di discutibili semplificazioni e forzature.
Tutto questo in un quadro di profondi cambiamenti. Proprio nel corso degli anni ’80 è maturata a livello internazionale una nuova sensibilità ai temi della Shoah: a seguito delle discussioni avviate in Germania intorno al passato nazista; per le forti preoccupazioni suscitate da atti clamorosi di rinnovato antisemitismo; per la crisi verticale del mondo comunista destinata ad incidere profondamente sull’identità dell’Europa e sul suo rapporto con il proprio passato. Paradossalmente quell’accresciuta sensibilità pareva contraddire la sfiducia sempre più forte di Primo Levi – lui che prima e più di tanti altri si era speso a testimoniare in prima persona – nella propria capacità di comunicare con le nuove generazioni.
La crescita di interesse per Primo Levi e l’avvio di un lavoro critico più maturo sulla sua opera manifestatisi dunque a partire dagli anni ’80 hanno poi trovato conferma in Italia e all’estero nel ventennio successivo, grazie al pieno consolidarsi delle condizioni favorevoli cui si è appena accennato e all’uscita postuma di altri scritti e, nel ’97, dell’opera completa a cura di Marco Belpoliti. Si è trattato, a parte l’incoraggiamento dato in Italia dalla scuola alla lettura di “Se questo è un uomo” e de “La tregua”, di uno sviluppo per larga parte spontaneo e segnato da due tratti principali. Da un lato ha preso forte rilievo, fino al limite dello stereotipo, una visione unilaterale di Primo Levi quasi solo deportato e testimone, tale da indurre alla sottovalutazione delle opere narrative e saggistiche non immediatamente riconducibili all’esperienza della Shoah. Viceversa é risultato sempre più evidente quanto l’opera, tutta l’opera dello scrittore torinese fosse per sua propria natura refrattaria alle semplificazioni e alle interpretazioni riduttive, e rivelasse ogni volta nuovi risvolti e nuove ricchezze. Di qui una presenza sempre più significativa nel panorama letterario e nel dibattito pubblico destinata a procedere in profondità oltre che in estensione. Fino a emergere improvvisamente allo sguardo di una platea innumerevole in forme impensate e amplificate oltre misura dai media come il “se non ora quando” gridato nelle piazze di Roma e Damasco, o l’espressione “zona grigia” applicata, spesso acriticamente, ai contesti più disparati.
Scoprire quella presenza al di là dei suoi aspetti più eclatanti è uno dei compiti che il Centro Primo Levi si propone, facendo emergere le domande che da punti di vista molto vari e non sempre prevedibili vengono rivolte a un’opera come quella di Levi, a sua volta impossibile da classificare. Senza peraltro dimenticare un compito ulteriore, altrettanto essenziale: aiutare cioè i suoi lettori a non perdere mai di vista l’uomo al centro di tanti interessi e di tante differenze. E questo non solo richiamando ogni volta la complessità del suo pensiero e della sua opera: ad esempio associando al testimone lo scrittore, il chimico, il linguista, l’ebreo, l’intellettuale, l’appassionato di rebus o di disegni al computer. Ma provando ad assumere il suo punto di vista, entrando dentro il suo laboratorio, per scoprire i legami veri che costituiscono il tessuto connettivo fra quei tanti terreni di lavoro e di espressione.
Non è facile indicare in poche battute che cosa un simile indirizzo possa significare concretamente, ma proverò ugualmente a fare qualche esempio per dare il senso complessivo degli ambiti di iniziativa del Centro.
Come ho già accennato si è dovuto attendere a lungo perché Primo Levi venisse pienamente riconosciuto come scrittore e non è detto che quel risultato sia stato definitivamente raggiunto in particolare fra chi ritiene che in fondo conta più il testimone di tutto il resto. In realtà sono proprio le qualità dello scrittore a dare tanto maggior valore alla sua testimonianza, come mostra con grande chiarezza il commento di Alberto Cavaglion a Se questo è un uomo appena pubblicato a cura del Centro o come ha fatto Mario Barenghi, in una delle dieci Lezioni Primo Levi – pubblicate da Mondadori in volume unico -, interrogandosi sul perché crediamo alle parole di Primo Levi a proposito del Lager: su cosa ci avvince al suo racconto e su come prende forma la sua autorevolezza di testimone e di scrittore.
La questione è di tanto maggiore interesse nell’epoca in cui i sopravvissuti della Shoah vanno scomparendo ed è essenziale che le loro testimonianze mantengano la propria forza comunicativa anche oltre la vita dei testimoni. Nel nostro caso non vale soltanto apprezzare fino in fondo le qualità del primo libro di Levi, ma è decisivo prendere atto di come lui stesso fosse pienamente consapevole del problema e cercasse volta per volta di dare una propria risposta originale. A distanza di quasi quarant’anni, con I sommersi e i salvati egli ha voluto e saputo andare oltre il racconto dei fatti, valendosi fra l’altro dei primi lavori degli storici, ma senza scegliere il mestiere dello storico. Interrogandosi sugli aspetti più inquietanti e paradossali del Lager a partire dalle domande rivoltegli in particolare dai più giovani, ha voluto rimanere se stesso, il testimone che parla e discute con chi è venuto dopo; il testimone che, proprio perché ha sperimentato il Lager, può valersi nei suoi tentativi di spiegazione di una particolarissima sensibilità rivolta alle profonde “smagliature piccole o grosse del nostro mondo e della nostra civiltà”; il testimone che ad esempio, mentre cerca di penetrare i misteri e le sfumature della “zona grigia” nel Lager, rende partecipi i propri interlocutori di un interrogativo ulteriore e attualissimo: se cioè di “zona grigia” abbia senso parlare anche per la società fuori dal Lager.
Lo scrittore e il testimone, ma anche lo scrittore e il chimico. In molti hanno giustamente sottolineato che può risultare limitativo parlare di Primo Levi esclusivamente come di un ponte fra le due culture, quella umanistica e quella scientifica. Può invece essere forse più utile interrogarsi su come le sue sensibilità, competenze e curiosità di uomo di scienza gli abbiano offerto uno sguardo più ampio sulle cose del mondo. Nella sua esperienza le scienze – e non solo la chimica – sanno infatti interagire con la letteratura e allargano i confini degli universi che essa riesce a rappresentare, offrendole più ampi spazi di realtà dove muoversi, inediti strumenti interpretativi e impensati mezzi linguistici.
Quanto al lavoro, esso appare nell’opera di Primo Levi come il luogo dell’esperienza in cui quell’aspirazione a una visione ampliata può realizzarsi in una forma ancora più piena: perché la conoscenza è arricchita dalle straordinarie opportunità e soddisfazioni offerte dalla pratica, dall’agire sulle cose e con gli altri; e perché si tratta di un terreno accessibile a tutti e ad ognuno. Il lavoro è insomma una delle risorse di “felicità” più preziose offerte all’uomo “su questa terra”; senza che tuttavia possa ritenersi al riparo da atroci stravolgimenti come nel Lager o da contraddizioni drammaticamente aperte come quella fra la positiva epopea di un Faussone – il personaggio centrale de “La chiave a stella” – e la frustrante alienazione dell’operaio massa.
Su una concezione di tal genere del lavoro pesa certamente – per toccare un’altra dimensione essenziale del pensiero e dell’opera di Primo Levi su cui è importante orientare la riflessione di studiosi e lettori –, oltre alle radici piemontesi, il retaggio della tradizione ebraica, per il rilievo in essa attribuito all’ortoprassi. Ed è anche alla ricerca di temi come questo che vale la pena muoversi nello studiare il rapporto che lo scrittore torinese intrattiene con la cultura dei suoi padri. La questione non può infatti essere racchiusa soltanto, come troppo spesso si è fatto nelle discussioni svoltesi sinora, entro i confini dell’alternativa fra identità ebraica e assimilazione, del confronto fra il modo di sentirsi e di essere ebrei in Italia e nell’Europa dell’est, o dell’atteggiamento assunto nei vari momenti dallo scrittore verso Israele e i suoi governi. Isolare quei diversi aspetti non aiuta, ancora una volta, a fare i conti con l’opera e con l’uomo nel loro insieme.
E, ancora, il rapporto con i giovani. Per chi aveva senso scrivere se non per loro? A chi altro offrire la propria testimonianza, precisa, impegnativa, paziente, se non a loro? Ed è in fondo, in un contesto pur molto diverso, la stessa cosa anche per noi, se pensiamo a chi si rivolge il nostro sforzo di far conoscere e apprezzare l’opera di Levi. Al riguardo ho già accennato al modo in cui egli esercitava la propria vocazione di educatore: anche su questo sarebbe utile raccogliere altra documentazione e nuove testimonianze soprattutto nelle scuole. Così come varrebbe la pena offrire analoga attenzione alle difficoltà di quel suo terzo mestiere, alle incomprensioni, alle delusioni, al senso di impotenza che, accanto ai successi, ne accompagnarono i vari momenti; e interrogarsi su quanto quegli ostacoli e quelle sensazioni riflettessero o meno i difficili rapporti fra le generazioni nella società contemporanea, sui temi della Shoah non separati da tanti altri.
L’urgenza a voler raccontare il Lager a tutti e in particolare ai più giovani, su un reduce-scrittore come Levi che ad Auschwitz era stato poco più che ragazzo, ha lasciato senza dubbio un segno profondo. Precisione e chiarezza di linguaggio sono stati così sin da subito, oltre che il frutto di un talento straordinario, un impegno perseguito con consapevolezza e rigore. In aperta contraddizione con l’elitarismo di tanta parte della cultura sua contemporanea, egli non sentiva di appartenere per storia famigliare e per attitudine personale ad alcun cenacolo di eletti entro il quale coltivare rapporti privilegiati ed esclusivi. Preferiva viceversa un modo di porsi che possiamo definire senza sbagliare come un’offerta di dialogo, resa più forte da idee originali e da una solida libertà di giudizio, più esplicita dalla connaturata disposizione, ad esempio nelle interviste, ad interrogarsi e a interrogare l’interlocutore, più gradita dal suo non farsi dispensatrice di “messaggi” e dall’essere accompagnata e sostenuta da una curiosità discreta per gli altri.
Dati quel particolare atteggiamento e la ricchezza dei temi su cui Levi intrattiene i propri lettori, viene da chiedersi quale rapporto essi – e noi insieme a loro – siano portati a stabilire con lui. Riflettere in proposito può anche essere utile per meglio situare la posizione e i compiti di un Centro come il nostro nel suo voler essere sostegno, stimolo e luogo di mediazione con lo scrittore e il suo pensiero. Al riguardo un’idea mi è venuta da tempo e non ho resistito alla tentazione di verificare nell’opera e nel linguaggio di Levi quali significati avessero le parole con le quali poteva essere espressa. Per cominciare ho dunque cercato di scoprire le non poche occorrenze del termine “compagno”: i compagni sono in primo luogo quelli del lager, il “compagno e confidente della mia prima notte”, i “miei compagni”, quelli “fuori nella nebbia” o “in drappelli”; ma anche i “compagni di studi”, i “compagni cristiani” all’Università, o i “compagni di Ulisse” nell’Odissea e nell’Inferno di Dante, e, ancora, i “compagni ossigeni” ne Il sistema periodico. In tutti questi esempi la relazione fra compagni appunto è di stretta vicinanza e condivisione, imposta per lo più da circostanze esterne che lasciano però un ampio margine alla gestione soggettiva dei rapporti in condizioni di relativa parità.
Ho poi fatto il secondo passo, cercando dove compare la locuzione completa: compagno di viaggio. Le occorrenze sono qui molto più rare. La prima in 12 luglio 1980, la poesia dedicata alla moglie Lucia nel giorno del suo compleanno:

“Abbi pazienza, mia donna affaticata,

abbi pazienza per le cose del mondo,

per i tuoi compagni di viaggio, me compreso,

dal momento che ti sono toccati in sorte.”

Un’altra non meno impegnativa, in “L’altrui mestiere”: “Come commisurare i dolori degli altri coi propri? (…) il solipsismo è una fantasia puerile: gli “altri” esistono, e fra questi anche gli animali nostri compagni di viaggio. Non credo che la vita di un corvo o di un grillo valga quanto una vita umana; è perfino dubbio se un insetto percepisca il dolore al nostro modo, ma lo percepiscono probabilmente gli uccelli e certamente i mammiferi. È difficile compito di ogni uomo diminuire per quanto può la tremenda mole di questa ‘sostanza’ che inquina ogni vita, il dolore in tutte le sue forme; ed è strano, ma bello, che a questo imperativo si giunga anche a partire da presupposti radicalmente diversi”.
Il “viaggio” rimanda in entrambi i casi appena proposti alla vita, in un’accezione individuale e più intima nel primo, in una prospettiva di tempo e spazio ben più vasta nel secondo. Al centro, con inflessioni diverse nelle due citazioni, la “sostanza” del dolore e il richiamo alla responsabilità di ognuno nel tentativo di porvi un argine, per se stessi e, appunto, per i propri compagni di viaggio. Presenze questi ultimi indiscutibilmente reali, vicine, sullo stesso piano, chiamate a uno scambio quotidiano. Figure insomma della normale condizione su questa terra nelle quali potersi rispecchiare qualunque sia la posizione di ognuno, lettore o scrittore non importa.

Fabio Levi